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Magari è un caso. Ma, se lo è, bisognerà pur riconoscerne lo straordinario tempismo, vale a dire quel miscuglio di accidente e perfetta orologeria svizzera che da sempre caratterizza il concetto, Aristotele incluso. Il caso sarebbe questo: mentre i quotidiani, la carta stampata, l’informazione in genere fatica a sopravvivere in edicola o sul piccolo schermo, e lotta con le unghie e con i denti per non essere trangugiata, digerita e espulsa dall’orco multiforme e perlopiù cieco che chiamiamo Internet, il giornalismo trova un inatteso cantore delle sue magnifiche sorti e progressive nel cinema più premiato e più amato del momento. Il che segnala che da qualche parte deve nascondersi un trucco. Almeno in Italia. Almeno in questi giorni.

D’accordo. I giornali ora si possono leggere non solo in forma tattile, ma anche – come usa dire – virtuale. Telefonini, tablet, computer. L’abitudine credo riguardi una fascia esigua della popolazione (trenta quarantenni acculturati e inurbati), ma d’altro canto qui da noi i lettori non sono mai stati legioni. A ogni modo, pur conteggiando la categoria più tecnologicamente agguerrita, quotidiani e settimanali perdono quote significative di mercato. Le edicole scompaiono, simili alle agenzie di viaggio, tramortite dai voli low-cost.

La tv registra la crisi mortale dei talk show d’informazione. Pare che le notizie viaggino ormai preferibilmente via Web, perlopiù in forma gratuita, attraverso blog, siti, motori di ricerca e social network, la cui principale peculiarità è quella dell’indistinzione. Che significa: non distinguere il famoso grano dal loglio, il vero dal falso, la realtà dalla fantasia. È così che “La montagna magica”, capolavoro letterario di Thomas Mann (1875 – 1955) premio Nobel nel 1929, può tranquillamente essere stroncato mentre si elogia, nello stesso spazio, il poema insensato del Carneade di turno o il saggio fuori di testa, che dimostra come siamo diventati tutti robot grazie a un complotto massonico-marziano (se non sbaglio, un deputato del Movimento 5 Stelle ne è stato entusiasta lettore).

Bene. In tanta afflizione, al Festival cinematografico di Berlino partecipa il film di Gianfranco Rosi “Fuocoammare”, un’ora e quarantasei minuti di alto giornalismo fuori degli schemi, di scrittura attraverso le immagini e di riflessione non banale (niente lacrime, retorica, eccetera) sul tema dei migranti che sbarcano disgraziatamente a Lampedusa: il film ottiene l’Orso d’oro, cioè il massimo riconoscimento della rassegna, e a nessuno viene in mente di dire che trattasi di opera «difficile, non adatta al grande pubblico». Tanto è vero che, dopo gli applausi berlinesi, il film esce in sala e ha successo.Non parliamo dei due Oscar (Miglior film e Migliore sceneggiatura originale), oltre alla valanga di altri riconoscimenti, andati al film Il caso Spotlight, regia di Tom McCarthy, che racconta i retroscena e l’escalation di una straordinaria inchiesta giornalistica del “Boston Globe”, una decina di anni fa, grazie a cui si scoprì la vastità del fenomeno pedofilo all’interno delle gerarchie cattoliche americane, fino a lambire la figura stessa dell’allora Pontefice.  Una pellicola che sta facendo il pieno di pubblico, oltre che di premi, un po’ dappertutto nel mondo occidentale. E che risveglia nello spettatore la nostalgia per un giornalismo forte, convinto del proprio ruolo, vorrei dire della propria missione democratica, e della sua funzione indispensabile di interpretazione della realtà anche nei suoi risvolti più oscuri.

Sei candidature all’Oscar (miglior film, miglior regia – Tom McCarthy, miglior sceneggiatura originale, miglior attore non protagonista – Mark Ruffalo, migliore attrice non protagonista – Rachel McAdams, miglior montaggio) per il film che racconta la storia del team di giornalisti investigativi del Boston Globe soprannominato Spotlight, che nel 2002 ha sconvolto la città con le sue rivelazioni sulla copertura sistematica da parte della Chiesa Cattolica degli abusi sessuali commessi su minori da oltre 70 sacerdoti locali, in un’inchiesta premiata col Premio Pulitzer. Nelle sale dal 18 febbraio.

E sarà ancora un altro caso, in arrivo anche questo dagli Stati Uniti, ma esce proprio adesso nei cinema italiani Truth di James Vanderbilt, con Cate Blanchett e quel vecchio leone di Robert Redford, ammirevole a ormai quota ottanta (il 18 agosto prossimo) a perorare, quarant’anni dopo “Tutti gli uomini del Presidente” sullo scandalo Watergate, la causa di un’informazione indipendente e non supina al potere politico di turno, oggi vestendo i panni di Dan Rather, storico volto dell’informazione serale della Cbs, uno dei più grandi network americani.

In sala il film di James Vanderbilt che racconta la storia vera della produttrice della CBS Mary Mapes che perse il suo posto a causa di un’inchiesta su George W. Bush. In questa clip esclusiva la scena clou del film con la messa in onda del servizio su 60 Minutes visto dai diversi protagonisti del film.

Il film racconta il reportage investigativo nel quale si rivelarono, a pochi giorni dalle elezioni che lo confermarono per il secondo e catastrofico mandato alla Casa Bianca, le prove secondo cui il presidente George W. Bush aveva trascurato i propri doveri di pilota nella Guardia Nazionale del Texas, durante la guerra in Vietnam. L’inchiesta fu screditata dal governo e i giornalisti messi a tacere brutalmente: lo stesso Dan Rather venne allontanato dal lavoro.Voglia di giornalismo, insomma, e di quello più serio e meno indulgente con le verità corrive del proprio tempo. E che è in grado di dribblare ogni forma di auto indulgenza. In Truth, quando il giovane apprendista stregone domanda alla vecchia volpe Dan Rather che cosa lo abbia motivato a scegliere il mestiere di giornalista, quello ci pensa su e dice semplicemente: «Curiosità». Non coraggio, o un qualche altro sinonimo di eroismo civile. Pura e semplice curiosità: verso il mondo, verso gli altri, o – il che è lo stesso – verso di sé. Non credo ci siano termini migliori per motivare uno dei mestieri più inutili e necessari della storia dell’umanità. Perciò coraggio, cari colleghi: difficile che Internet uccida la curiosità. E poi ricordate: fare il giornalista è sempre meglio che lavorare.

Fonte: www.espresso.repubblica.it

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