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Il mercato dei media in Italia regge. Nel 2015, dopo anni di declino, chiude in sostanziale parità rispetto al 2014. Stando al Politecnico di Milano, che oggi presenta la sua indagine condotta dall’Osservatorio Internet Media, si arriva a 15,3 miliardi di euro. Ma fra giornali, tv, servizi streaming, radio, app e siti web che propongono contenuti pagamento o vivono di introiti pubblicitari, le zone di luce e di ombra si alternano per effetto di dinamiche di segno opposto tra i diversi mezzi di comunicazione e distribuzione. Dalla pubblicità arrivano nel complesso 7,5 miliardi di euro, erano 7,2 nel 2014, e per quanto siamo ancora lontani dalle vette del 2008 quando si erano toccati i 9,2 miliardi, la crescita delle ultime due stagioni è sensibile. Nei contenuti a pagamento la musica cambia: si passa da 8,1 miliardi a 7,9, continuando con il calo ininterrotto dal 2008 e dal suo giro di affari di 9,2 miliardi.

Ma al  propendono per l’ottimismo: «Per il 2016 ci aspettiamo una crescita di qualche punto», spiega Marta Valsecchi, condirettrice dell’Osservatorio con Andrea Lamperti. Guardando in dettaglio i vari settori, la stampa fa registrare una flessione di cinque punti percentuali. Un calo valido sia per quanto riguarda la componente a pagamento sia per quella pubblicitaria, malgrado la crescita di quella online. Ha ancora in mano il 39 per cento della torta delle inserzioni, mentre la Tv è al 59 per cento. Con la differenza che quest’ultima tiene e chiude in pareggio, bilanciando il calo dei ricavi della pay tv con l’aumento della pubblicità. La radio al contrario fa un bel salto in avanti: più 9 per cento.

Bene anche tutti i media digitali, che registrano un balzo di undici punti. Qui la parte legata alla pubblicità è quella maggiore, 2,1 miliardi di euro che diventeranno 2,3 nel 2016. Il 40 per cento viene dai classici annunci sulle pagine web che totalizzano un più 12 per cento rispetto al 2014. Evidentemente i software “ad blocking”, che oscurano gli annunci quando si naviga, da noi non sono così diffusi come altrove. Basti pensare che in Asia, secondo il New York Times, già il 36 per cento delle persone li usa quando aprono un browser da smartphone. Comscore calcola che in Italia siamo attorno al 13 per cento, ben lontano dal 27 per cento della Francia e il 24 della Germania. La pubblicità sui motori di ricerca, raccoglie il 33 per cento dei ricavi sul Web e cresce di cinque punti. Poi ci sono i video con il 17 per cento e un aumento di ben 26 punti. Un’impennata simile a quella dei social network e i due fenomeni in parte si intersecano. «Molta della crescita video nel 2016 è infatti legata a Facebook », sottolinea la Valsecchi. Cala invece la pubblicità di un punto nelle mail promozionali e nelle newsletter che nel complesso hanno l’8 per cento della torta.  L’altro grande salto in avanti viene dallo streaming e dai contenuti a pagamento sul web. Da Spotify a Netflix, fino alle copie digitali dei quotidiani, la raccolta con gli abbonamenti è di “appena” 112 milioni di euro, ma con un più 24 per cento rispetto allo scorso anno. La musica cresce dell’87 per cento, film e serie tv del 27. Spotify, Apple Music, Deazer, Tidal, Google Play e gli altri servizi simili, contano su 25 milioni di euro. Nel 2016 potrebbero crescere ancora, bisognerà però vedere di quanto. La televisione in streaming, che comprende fra gli altri Sky Online, Tim Vision, Infinity di Mediaset e Netflix, vale il doppio della musica, 50 milioni. Mentre i giornali su abbonamento digitale raccolgono circa 35 milioni di euro, l’uno per cento del mercato delle news a pagamento. «Se guardiamo all’intrattenimento, le cose stanno andando bene», spiega Guido Argeri, a capo della divisione telco e media di Doxa. «La tv tradizionale vien vista ancora del 70 per cento degli italiani, quella in streaming ormai è fruita dal 46 per cento di chi accede alla Rete, che in totale sono 25 milioni di individui. E fra questi, 3,2 milioni hanno sottoscritto un abbonamento a servizi come Netflix». Con una parte consistente che usufruisce del periodo di prova o condivide l’abbonamento. Nel nostro Paese si va quindi verso una convivenza fra vecchia e nuova tv, anche se la prima è stabile e la seconda cresce a doppia cifra. «Un altro elemento molto forte è l’aumento del consumo di video brevi, cominciando da YouTube», prosegue Argeri. «Tocca l’80 per cento di chi accede al Web e nove millennials su dieci, ovvero coloro che sono fra i 16 ai 34 anni». E sono sempre i video brevi che portano le persone a passare più tempo sui siti dei quotidiani così come sui social network. Di fatto, assieme alla pubblicità online, l’altro settore che cresce a vista d’occhio sui giornali italiani.

Fonte: www.francoabruzzo.it

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